“Rachid il laureato”, titolava
così pochi giorni fa Repubblica e i Tg hanno dedicato gioiosi servizi alla
storia del giovane marocchino, 26 anni, arrivato quattordici anni fa con i fratelli e laureatosi
al Politecnico di Torino, vendendo accendini e fazzoletti. I compagni
stralunavano ad incontrarlo fuori dalle aule, ma poi è diventato uno di loro, la
gioventù non è così classista.
Un vanto per la nostra
Università, frequentata da 66 mila stranieri, di cui 52 mila extracomunitari, un
bel traguardo per il ragazzo immigrato e anche per il Bel Paese perché significano
nuova linfa, nuovi talenti, che diventeranno parte della nostra società, così
vecchia e così giovanilmente “ignorante”
per competenze alfabetiche, secondo l’Ocse in coda ai Paesi occidentalizzati.
Il Sole 24 ore, nel suo
inserto di Economia e Società del 29 settembre, pochi giorni prima di Lampedusa, dedicava
una pagina “all’immigrazione che fa profitti”, gli immigrati sono anche
produttori e consumatori. Provocatorio e un po’ “leghista”, l’articolo analizzava invece pacatamente il
saggio di Alvaro Vargas Llosa “Global Crossing:
immigration, civilization, and America”: riguardo l’immigrazione non
c’è nulla di nuovo e nulla da temere,
si sottolineava, se non i luoghi comuni.
Oggi l’immigrazione internazionale
pesa per il 3% della popolazione mondiale e la questione islamica ne riguarda
una percentuale modesta, mentre l’argomento
migliore su cui giocano i “chiusisti”
è l’idea che la ricchezza, ovvero l’occupazione, sia una torta da fare a fette,
ogni lavoro ad un immigrato sottrae pane ad un lavoratore autoctono. Ma, rileva
l’autore, se così fosse, come mai negli Usa dal 1950 fino alla crisi del 2008, quando
si è triplicata la forza-lavoro composta pure da tanti immigrati, non si era mai registrato alcun
aumento a lungo periodo nel tasso di
disoccupazione?
Si dirà poi che gli
immigrati competono in prevalenza per lavori a bassa specializzazione, vanno a
danneggiare una categoria di lavoratori fra i più deboli; ma sostiene Vargas, “gli immigrati hanno quasi per definizione
spirito imprenditoriale”: un sesto delle start up statunitensi è sorto per iniziativa di un americano di prima generazione. Cita esempi illustri, come Sergey Brin di Google, che lasciò la Russia da
bambino, Pierre Omidyar, fondatore di Ebay, figlio di immigrati iraniani, Jerry
Jang, di Yahoo, arrivato da Taiwan.
Nel nostro Paese una
larghissima maggioranza di nuovi imprenditori sono stranieri, anche sotto casa vediamo
tanti negozi di frutta e verdura un tempo spariti e ora riaperti da immigrati, che cercano una chance di
vita dignitosa, aiutano la nostra economia. Eppure in Italia ci vogliono fino a
ventiquattro mesi per ottenere lo stato
di rifugiato, e aridi, realistici conti rilevano che un rifugiato costa
trenta euro rispetto ai centosedici di un detenuto.
Curiosamente, nell’Europa,
che pure considera la libertà di
movimento uno dei suoi pilastri, solo un europeo su dieci è nato da
genitori stranieri: al di là della pietas per il cimitero del mare, forse siamo
noi del civile Antico Continente i veri “chiusisti”.
(Bianca Vergati - foto di Giovanna Profumo)
(Bianca Vergati - foto di Giovanna Profumo)
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