Da molto tempo però la vera eleganza è quella delle sue operaie, trasformate in attrici da Living Theatre per denunciare la loro condizione, così rappresentativa della devastazione che l’economia globale porta nei paesi che non hanno strategie economiche ed industriali da contrapporre. Dal 2010 sono in cassa integrazione senza prospettiva, perché l’azienda, tutt’altro che in crisi, si è “delocalizzata” in Serbia, dove gli stipendi vanno dai 200 ai 250 euro al mese, e le operaie vengono scelte tra le donne sole, separate, con figli a carico, e quindi nella impossibilità di sottrarsi al ricatto di un lavoro sottopagato, anche rispetto alla media di quel paese.
Noi le avevamo viste a Genova in occasione del convegno “Punto G, genere e globalizzazione” (vedi Oli 325), emozionandoci a quella rappresentazione, scandita dal ritmo di un fischietto, che terminava nella “esecuzione”, una per una, di quelle vite di lavoro. Sei mesi dopo, il 27 dicembre, come da previsioni, sono tutte poste “in mobilità” verso il nulla. Ora c’è una trattativa, e un primo risultato strappato dal sindacato: il proprietario della Golden Lady chiederà la prosecuzione della cassa integrazione “in deroga”, per “superare la procedure di mobilità” e dare una prospettiva ai “negoziati con alcuni investitori per l'acquisizione dello stabilimento di Faenza”. Prossimo incontro domani 22 febbraio: speriamo.
Intanto, nei giorni scorsi, aveva preso vita un vivace dibattito tra le donne della rete “blogfemministi” (vedi Oli 318 ) a proposito della campagna “Boicotta Omsa”, a sostegno delle lavoratrici. E' Lorella Zanardo (*) a sollevare dei dubbi: “La situazione è complessa e un boicottaggio portato avanti con successo può avere come risultato anche la volontà di spostare la produzione ancora più rapidamente ... il mercato è globale. E' giusto chiedere all'imprenditore di non licenziare ma non credo basterà”.
In alternativa propone il messaggio in “Ti compro se non licenzi”, mirato ad un patto con l’imprenditore: "se la produzione non viene spostata, ci impegniamo in una campagna di promozione del marchio”.
In rete corrono i pareri: “Tra gli imprenditori c'è anche brava gente, che non ce la fa materialmente più, con il costo del lavoro esistente in Italia, a mandare avanti un'azienda”; “Noi non possiamo sostituirci ai sindacati o alle stesse donne che stanno contrattando da anni per andare a interloquire con il padrone della fabbrica”; “Credo che la vera risposta sia un'organizzazione di lavoratori internazionale che si coordini e faccia richieste all'unisono”.
Le donne in rete cercano strategie, ma la realtà oppone una durezza che non favorisce le speranze. In quel territorio non è solo l’Omsa a chiudere, tutti i calzifici sono stati chiusi, delocalizzati. Persi più di 1000 posti di lavoro, e altro non c’è. Tutto intorno è un deserto. Da un lato la politica del governo serbo, che attira gli industriali italiani con incentivi che azzerano per tre anni il già bassissimo costo del lavoro, dall’altra l’assenza di qualunque politica industriale italiana.
(*) Sul sito di Lorella Zanardo la sua posizione sul caso Omsa, e il video della performance delle operaie Omsa
(Paola Pierantoni - foto dell'autrice)
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