Eravamo sotto di due anni e mezzo rispetto alla media europea dell’età di pensionamento.
Da lunedì la soglia è stata varcata e siamo pienamente entrati nella corrente che trascina sempre più avanti l’età in cui si può lasciare il lavoro, riducendo l’entità dei trattamenti pensionistici. Strada obbligata, si afferma, a causa dell’allungamento della vita e del faticoso ingresso delle persone giovani in un lavoro pienamente retribuito e “contribuito”.
Il governo Monti ha compiuto il salto in modo talmente secco da togliere il fiato. Tanto che lo stesso Alberto Brambilla - presidente del Nucleo di Valutazione della spesa previdenziale del Ministero del Lavoro – intervenendo martedì 6 dicembre alla trasmissione “Tutta la città ne parla” su Radio 3, dopo aver sostenuto che l'aggancio del pensionamento alla cosiddetta “speranza di vita” è necessario, ha affermato che il salto è stato troppo brusco, tale da sconvolgere le prospettive esistenziali di molte persone.
Che si viva più a lungo è un dato di realtà.
La realtà però è fatta anche di aspetti apparentemente incalcolabili, della cui concretezza e importanza ci si accorge dolorosamente solo dopo decenni, quando il danno è irreversibile, o chiede immensi costi di recupero.
Come quando una comunità si trova a dover investire miliardi per il recupero di un’area imbottita di inquinamenti nocivi abbandonata dopo anni di irresponsabile sfruttamento: quale è, calcolandolo dall’inizio alla fine, il bilancio economico complessivo per la collettività?
L’apparentemente “incalcolabile” dell’aumento dell’età del pensionamento è legato alla domanda: ma cosa fanno oggi le persone che in età ancora vitale sia intellettualmente che fisicamente, si trovano libere dall’impegno quotidiano del lavoro retribuito? Se ne stanno a guardare la televisione e i lavori stradali, o fanno qualcosa che ci serve?
Per l’esperienza che ho, grande parte delle persone svolgono un lavoro meno qualificato delle proprie potenzialità e competenze, o comunque un lavoro che utilizza solo una parte molto delimitata e circoscritta della propria creatività.
La liberazione del proprio tempo riapre i giochi, a vantaggio di tutti.
Io vedo donne e uomini in pensione che fanno gratuitamente cose straordinarie, nella cultura, nell’intervento sociale, nell’espressione artistica.
Se le persone lasceranno il lavoro più vecchie, più stanche, più malate tutto questo andrà perduto. Quanto costa questa perdita? Qualcuno lo ha calcolato?
Chissà poi se qualcuno ha calcolato l’altra conseguenza dell’aumento della speranza di vita: l’aumento degli anziani anzianissimi, quelli per i quali la promessa di una vita più lunga è stata largamente mantenuta, ma non quella - su cui si glissa - dell’auto sufficienza e di una salute splendida fino ad un istante, ma proprio un istante, prima di morire. Quanta parte hanno i pensionati - soprattutto le donne - nell'assistenza a queste persone? Se li teniamo al lavoro fintanto che anche loro inizieranno ad avere dei problemi, che si fa?
(Paola Pierantoni - disegno di Guido Rosato)
martedì 6 dicembre 2011
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