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Foto di Alisia Poggio |
Se nel 2009 Stefano Cucchi fosse stato arrestato a Milano e la sua destinazione fosse stata Bollate, chissà, magari le porte del carcere non si sarebbero mai aperte per lui. Oppure, anche se per errore ciò fosse avvenuto, un pigiama pulito l'avrebbe subito raggiunto a placare l'apprensione della famiglia, rassicurata che fosse vivo e protetto dalle istituzioni da una possibile ricaduta nella tossicodipendenza e a ribadirgli che non era solo. Dopo poco sarebbe uscito nuovamente alla luce del sole, non l'avrebbe vista flebilmente filtrare da un lenzuolo, come i bambini quando si nascondono sotto coperta trattenendo il respiro, e affievolirsi pian piano sotto il peso del suo corpo martoriato.
Non sussistevano motivazioni per trattenerlo a Regina Coeli, non era senza fissa dimora, peraltro debole motivazione, la sua casa era stata perquisita poco prima dell'arresto, i genitori e la sorella erano comunque altri punti di riferimento disponibili, ma non interpellati. Non era albanese, come era stato registrato all'arresto. E anche se lo fosse stato? Altra debole motivazione. Anche se in carcere ormai si è ospitati perché senza casa, immigrati senza documenti, tossicodipendenti e così via, con scarsità di rappresentanti legali.
Invece venerdì 4 febbraio 2011 a Genova, abbiamo assistito ad ad un'altra storia, ciò che avvenne, dalle parole della sorella Ilaria Cucchi, testimone infinita, quanto il dolore che prova nel non aver compreso i richiami d'aiuto del fratello, nel sentire, non veritiero, di averlo abbandonato al suo destino.
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Foto di Alisia Poggio |
In realtà la scelta di celare ciò che stava accadendo dietro una tenda di omertà era stata presa da altri, gratuitamente. Le orecchie tappate alla voce sempre più debole per rispondere ad un interrogatorio, lo sguardo voltato perché nulla stava accadendo, se non una scarica di violenza ingiustificata, l'assistenza medica negata perché non ce n'era motivo essendo lievi le lesioni per cui Stefano Cucchi giunse all'Ospedale Pertini, la testimonianza tardiva di un volontario, involontariamente sbalordito testimone che non riesce a comunicare l'accaduto prontamente. Tutto questo perché non basta a fermare Ilaria, che chiede qualcosa di più profondo del "che giustizia sia fatta", ma il riconoscimento della verità, il recupero di una dignità sottratta, perché lei e la sua famiglia credono ancora nelle possibilità delle istituzioni di rappresentare e difendere. Prova ne sono i mille foglietti colorati con i quali Sandra Bettio, della Conferenza Regionale Volontariato e Giustizia, ha costellato la sua copia del libro di Ilaria dove veniva ribadita la fiducia nelle istituzioni. La famiglia Cucchi, come Heidi Giuliani, lì presente in sala, come la madre di Federico Aldovrandi vogliono essere attivi nella possibilità di avere istituzioni diverse che tutelino i cittadini e togliere il velo dagli occhi di chi ancora crede che la giustizia faccia il suo corso. Sarebbe meglio dire decorso, pensando ai quotidiani suicidi nelle carceri italiane, ormai un contatore senza nomi.
(Maria Alisia Poggio)
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