Alcune domeniche fa ho assistito a un concerto di musiche ebraiche in un Santuario della Provincia di Genova. Cantavano i cori della sinagoga di una delle più grandi comunità ebraiche d’Italia e quello di una nota e gloriosa città israeliana.
La serata era cominciata all’insegna della più consueta normalità. Gruppi di cittadini ebraici che si incontrano e si salutano; persone gentili e sorridenti venute da lontano che si fotografano, o si danno da fare per posizionare al meglio telecamere portatili e registratori; famiglie venute anche da fuori per incontrare parenti e connazionali; qualche giovanotto ben curato e robusto che può far pensare, ma solo per un attimo, a qualche forma di protezione.
E poi il solito ristretto gruppo di abitanti della cittadina ospitante, intervenuti per sentire musica che è difficile normalmente ascoltare, per curiosità, o semplicemente per passare la serata.
Non capita spesso che musica ebraica venga ospitata da un santuario cristiano e quindi il concerto acquistava quasi un valore particolare. Scambi di doni tra assessori e rappresentanti del coro e della città Israeliana, sorrisi, cortesia, qualche imbarazzo per l’assenza del Sindaco, ma nessuna parola politica, nessun accenno, neanche sotto traccia, al bisogno di pace e di convivenza fra due popoli in due stati, pure portata avanti da sempre dalla maggioranza di centro-sinistra che governa il Comune ospitante. Forse è giusto così, che i concerti e l’ospitalità si svolgano in un’atmosfera di sopore, di condivisa ipocrisia di superficie. Ma forse è la cosa peggiore! Infatti l’ostentazione nazionalistica ha fatto irruzione col coro della comunità ebraica italiana che portava al collo la bandiera ebraica, cemento di identità contrapposto all’altro diverso da te, e durante il canto del coro della città israeliana una voce chiara e schietta ha scandito il tragico slogan: morte ai Palestinesi! Nessuno ha protestato, nessuno ha avuto da ridire, anzi non era possibile dire niente. L’abisso affiorato dalla normalità di una serata di concerto costringeva al silenzio e, in un certo modo, rinfrancava chi da quelle parole si sentiva rappresentato. E così l’abisso si è subito richiuso. Mi ha preso un’inquietudine angosciata e me ne sono andato.
Poi c’è stata la prima nave per Gaza con i suoi morti, la seconda che ha portato nei pressi di Gaza aiuti umani e materiali nel nome di Raquel Corrie. E poi l’O.N.U. e le sue condanne del governo di Israele e il Papa con le sue preghiere. E le inchieste che non si faranno mai.
Ma anche il corale appoggio ai pacifisti e alle politiche di pace, le dichiarazioni di Amos Oz, che, rompendo finalmente l’omertà e l’ambiguità, reclama confini certi per il popolo Palestinese (quelli anteriori alla Guerra del 1967) il riconoscimento dello Stato di Palestina in Cisgiordania, l’apertura di trattative con Hamas per Gaza, Gerusalemme est capitale della futura nazione Palestinese unificata.
E poi Noa, la cantante bravissima e bellissima, che vergognandosi del suo governo e chiedendone le dimissioni, ha proposto a tutto il mondo dell’arte che si faccia promotore di pace e di sostegno alla causa della convivenza di due popoli in due stati.
Parole forti, parole dense. Vedremo quanto passerà perché vengano risucchiate dalla banalità del normale.
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